Gianluca Attademo
Recensione a A.B.Yehoshua, Antisemitismo e
sionismo, Torino, Einaudi, 2004.
«L’immagine
raccapricciante dell’ebreo che, come una creatura amorfa, può insinuarsi
nell’identità dei gentili senza che questi riescano a controllarlo, nasce dalla sensazione che
costui possieda un’identità estremamente flessibile proprio perché costruita come
una sorta di atomo indivisibile intorno al quale gravitano elettroni virtuali
la cui traiettoria è in continuo mutamento. … quindi, quando un antisemita, a
causa di suoi problemi di identità, diviene ossessionato dall’idea che qualcosa
si è infiltrato nel suo mondo, verrà colto da un accesso di follia omicida che
raggiungerà il culmine con la raccolta di tutti gli ebrei, il loro contrassegno
fisico(…) e lo sterminio delle camere a
gas, una morte procurata quasi senza contatto umano.» (pp. 51-52)
Ne Antisemitismo
e Sionismo (Einaudi, 2004, 7 euro, 90 pagine) A.Yehoshua si propone di «
discendere fino alle radici dell’identità ebraica, scavare in profondità, per
capire la pericolosa interazione patologica che talvolta si crea tra gli ebrei
ed i loro vicini». (p. 29) Ad orientare questa stimolante ricostruzione è
l’idea che, attraverso la storia, sia possibile individuare una forma perenne
dell’antisemitismo, una sua dimensione «strutturale» invariata, un filo rosso
che accompagna, dalle cronache veterotestamentarie ad oggi, l’ostilità nei
confronti degli ebrei. «Elemento stabile del comportamento umano» (p. 7) l’antisemitismo
di cui discute Yehoshua, è «sostanzialmente una patologia del singolo … che in
casi estremi può divenire collettivo»(p. 53).
E come
in medicina lo studio delle patologie contribuisce a definire meglio i processi
biologici dell’organismo sano, così secondo l’autore, una analisi
dell’antisemitismo passa per un confronto serrato con l’identità ebraica. In
che modo dunque sorge e si manifesta l’odio per gli ebrei? Quali i caratteri di
questa “costante”? «Il problema nasce dall’interazione tra due immaginazioni:
quella dell’ebreo e quella del gentile che con la prima si pone in relazione» (p.
53). Ci sarebbe cioè qualcosa nella immaginazione degli ebrei capace di
innescare meccanismi profondi di ostilità e questo qualcosa avrebbe a che fare con
una dimensione strutturale della coscienza ebraica. Una “struttura”che deve,
dunque, essere riconoscibile a partire dalle origini della storia d’Israele e,
conseguentemente, lo scrittore israeliano conduce il lettore attraverso le
pagine del libro di Ester. In questo testo, scritto tra il IV ed i II a.C. «da
ebrei per altri ebrei» figurano, paradigmaticamente, la volontà di sterminio
dei gentili (in questo caso babilonesi) e gli elementi della identità ebraica
“responsabili” di tanto accanimento. In questo libro è infatti individuabile
quel peculiare percorso identitario autoimmaginativo, che contraddistingue gli
ebrei: «lo stretto e particolare vincolo, o meglio identificazione tra
religione e nazionalità» (p. 37). In virtù di questa identificazione, «stranamente,
ma comprensibilmente… si è sviluppato un altro elemento, virtuale, libero, e
immaginario, che proprio questa duplicità permette… un elemento essenziale,
emerso durante l’esilio babilonese e che ha dato agli ebrei la possibilità, da
loro sfruttata di rimanere volontariamente in esilio senza perdere la propria
identità. Tale elemento è la capacità di trasposizione virtuale(…) di
componenti indispensabili al mantenimento di un’identità nazionale (quali il
territorio la lingua e persino uno schema di solidarietà collettiva) da una
sfera nazionale attiva a una religiosa e rituale, serbandole così vive per
migliaia di anni» (p. 41). L’atto immaginativo degli ebrei, di gran lunga più
potente di quello, per esempio, dell’italiano medio che quando pensa alle sue
radici non ha che da affacciarsi alla finestra, conduce a che « i gentili si trovano di fronte a qualcosa
di amorfo, a un essere dotato di una straordinaria capacità di cambiamento… la
scomparsa dell’ebreo non è mai definitiva, così come la sua presenza non è mai
certa e irrevocabile…. La componente virtuale presente nell’ebreo, sviluppatasi
intorno al doppio nocciolo, durissimo e denso, di nazionalità e religione, gli
permette quindi di tendere le ali della sua identità fino a limiti distinti e
indefiniti, rendendole sottilissime e facendo si che penetrino con facilità
nell’identità di altri popoli senza che questi siano sempre in grado di
riconoscere ciò che è insinuato in loro senza la certezza di poterlo assimilare
in modo soddisfacente e definitivo» (p. 49).
Qui lo
snodo cruciale dell’argomento di Yehoshua: questa facoltà, tutta psicologica,
che ha caratterizzato la storia degli ebrei in quanto capacità di riconoscere
gli elementi fondamentali della propria identità non come un qualcosa di
vicino, ma come un al di là indefinito, consente anche ai singoli (e
alle culture conseguentemente?), che entrano in interazione con gli ebrei, di
costruirsi una immagine dell’ebreo che non è la persona che sta loro di fronte.
«Il gentile, che con l’ebreo intrattiene una serie di rapporti quotidiani,
entra in contatto con questa sua componente virtuale, si ricollega al
meccanismo di quegli elementi indefiniti e vi proietta con relativa facilità le
proprie fantasie, le proprie paure e i propri desideri, nel bene, ma
soprattutto nel male. E se talvolta l’identità del gentile è travagliata e non
ben definita ed egli vi percepisce una qualche minaccia, vera o presunta, ecco
che l’interazione con quell’elemento poco chiaro che vive accanto a lui e
dentro di lui può portarlo a comportamenti folli e squilibrati» (p. 50).
In
questa prospettiva quella che Yehoshua definisce la tesi sionista classica (
l’invito agli ebrei a dotarsi di quelle strutture di riferimento – un
territorio definito, uno stato, etc.- che hanno segnato la storia della loro
esclusione) diventa un importante fattore di innovazione anche se opera ad un
livello di consapevolezza superficiale di questi problemi ed è quindi incapace
di prevenire nuovi scivolamenti.
Invece,
la scintilla che lo scrittore, individuando tale struttura stabile
dell’antisemitismo, lancia alla storiografia « nella speranza di attizzare una
fiamma» (p. 5), si propone di fornire gli elementi per una analisi specifica
della situazione contemporanea. «Israele .. ha ristabilito una serie di
rapporti torbidi e simbiotici con il popolo palestinese… una regressione rispetto
ai suoi primi e importanti successi nel definire i limiti della sua identità
nazionale al tempo della fondazione dello stato… ricaduti in vecchi e
pericoloso schemi che stimolano l’attività immaginativa e la mancanza di
definizioni e attraggono pericolosamente nemici mentalmente instabili» (p. 58).
Con una metafora classica direi che, anche se oggi gli ebrei (gli israeliani ?)
nelle scuole dove fanno crescere i loro figli, negli ospedali dove accolgono i
loro cari ed nel parlamento dove discutono del loro futuro, non si sentono più
come ospiti invitati, un po’ per pena e un po’ per caso, ad una festa nella
quale non hanno parte, secondo Yehoshua, la componente virtuale della loro
identità non accenna a retrocedere.
«Ci si
pone la domanda se sia possibile correggere qualcosa nella particolare
struttura dell’identità ebraica così da renderla meno vaga e limitare la sua
azione virtuale… non ho alcun dubbio che il ritorno di una parte del popolo
ebraico nella terra d’Israele contribuisca notevolmente a limitare la
componente virtuale dell’identità ebraica classica» (p. 57). Quale sentiero percorrere per sciogliere
l’inestricabile nodo del rapporto tra religione e nazionalità? Per porre fine una
volta per tutte alla diaspora, a tutte le diaspore?
Qui l’analisi
di Yehoshua addirittura si sposta dal “metastorico” e all’”originario”: la
diaspora, scrive, responsabile dei fenomeni sin’ora descritti, è stata la scelta
degli ebrei di non doversi sottomettere gli uni agli altri: «Gli ebrei non
scelsero la diaspora per motivi di benessere o di sicurezza. Molto speso nelle
loro terre d’adozione vissero nella povertà più nera e sotto regimi crudeli e
temibili come pochi altri. La loro fu una scelta più profonda, nevrotica, compiuta,
come ho già detto più di duemila e cinquecento anni orsono perchè malgrado i
rischi, le sofferenze e le umiliazioni che essa comportava, aiutava ad allevare
il peso del conflitto ( del paradosso) insito nella loro identità. Solo nella
diaspora infatti poteva sussistere un modus vivendi, uno status quo, una
tregua tra due diversi codici di comportamento: quello nazionale e quello
religioso…» (p. 78). E continua «… per un senso di autopreservazione il popolo
ebraico preferì sopravvivere in luoghi dove godeva di una sovranità
indipendente, ovvero dove nessun ebreo poteva esercitare un potere effettivo su
un altro… nella diaspora erano in grado di trovare un equilibrio tra
appartenenza nazionale e religiosa e di interpretarle a loro piacimento… solo
in tal modo riuscirono a preservare la loro doppia identità, malgrado il suo
implicito paradosso, senza disgregarsi. Anzi in quelle condizioni quella doppia
identità, per quanto problematica, rappresentava un vantaggio giacchè
rafforzava il loro senso di appartenenza, a differenza di altri popoli che si
sgretolavano dopo un certo periodo al di fuori del proprio territorio» (p. 79).
Il
sionismo, impelagatosi in una lotta per la sopravvivenza non è riuscito a
risolvere il problema della mancanza di tensione tra religione e nazionalità
emerso nella diaspora ma, sostiene Yehoshua, invece oggi i tempi sono maturi (come
la presenza nella società israeliana di ebrei laici, di ebrei cristiani e
buddisti conferma) perché le scissioni si ricompongano: «Se nazionalità, allora
che sia tale, senza alcuna condizione di credo religioso. E se religione,
allora che sia aperta anche a persone di altre nazionalità» (p. 89).
L’approdo
di questa analisi mi sembra più che problematico. A me pare che qui a dispetto
della volontà dell’autore emergano una serie di questioni sul rapporto
complesso tra stato, società e religione che, anziché all’eterno, appartengono
alla storia della cultura europea moderna ed in particolare sette-ottocentesca.
Sono temi a lungo dibattuti, ad esempio, nella cultura tedesca, quando nell’edificare
una nazione unitaria ci si doveva confrontare con la presenza di minoranze
(forti come i cattolici o escluse come gli ebrei) che se per alcuni, più
impregnati della teologia naturale dell’illuminismo, non facevano in fondo
problema perché destinate come tutte le religioni a dissolversi in quanto tali
evolvendo nell’etica razionale, per altri erano il segnale della necessaria
tensione dell’umanità all’assoluto che si declinava in forme specifiche. E tra
questi non mancava chi esortava gli ebrei a smetterla con una religione “falsamente
universalista”: «se nazionalità, allora che sia tale, senza alcuna condizione
di credo religioso. E se religione, allora che sia aperta anche a persone di altre
nazionalità.» La prossimità è troppo evidente per non essere sottolineata. Il
nostro autore che si muove solo tra i classici del sionismo, con lo scopo
dichiarato di trovare una soluzione ai problemi generati dalla identità
diasporica, finisce per saltare a piè pari tutta la tradizione cultursionista
ed assimilazionista. Quella tradizione appunto che leggeva nella anima
biforcata, una ricchezza anziché un fardello di cui sbarazzarsi ( come
quotidianamente antisemiti e sionisti invitavano a fare). Sono i Cohen, i Buber
e i Rosenzweig seppelliti, già da quarant’anni, dalle sprezzanti parole di un
altro israeliano, G. Sholem, contro il dialogo ebraico tedesco. I motivi di
questa selezione sono più che evidenti: la cultura della assimilazione/simbiosi
è per molti, anche se non per chi scrive, una tradizione che è naufragata. Ma
se scegliessimo di riportare i temi del problema religione/nazionalità dal
sovrastorico ai dibattiti della cultura moderna, potremmo ignorare i molteplici
stimoli che ci vengono ancora (nonostante Auschwitz), da quegli autori che si
sentivano ebrei e tedeschi, ebrei ed italiani, ebrei e francesi senza dover
denunciare alcun “falso universalismo” della tradizione ebraica? Senza dover
assumere gli slogan dell’antisemitismo per invitare gli ebrei ad approfondire
il dilemma della “mancanza di radici”?
Un
problema di metodo (il proiettare temi e problemi della tarda modernità fino
all’esilio babilonese) e un problema profondo di confronto della cultura
israeliana con la cultura della diaspora (e soprattutto della assimilazione) emergono
da questo testo di Yehoshua che sebbene si proponga di «demistificare
l’immagine dell’ebreo agli occhi degli antisemiti (o dei filosemiti un po’
troppo entusiasti) e anche degli ebrei stessi» (p. 55) approda a posizioni
molto prolematiche. Per ricominciare a discutere in Italia (dove il volume è
uscito prima che in altri paesi) della storia dell’assimilazione,
dell’antisemitismo, del sionismo e della situazione di Israele questo breve, ma
densissimo, testo è una occasione da non perdere.