Ferrara, Maria Luisa (2006) Anastilosi e reintegrazioni nei monumenti archeologici della Sicilia (secoli XVIII-XX). [Tesi di dottorato] (Inedito)

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: Anastilosi e reintegrazioni nei monumenti archeologici della Sicilia (secoli XVIII-XX)
Autori:
AutoreEmail
Ferrara, Maria Luisa[non definito]
Data: 2006
Tipo di data: Pubblicazione
Numero di pagine: 305
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Storia dell'architettura e restauro
Dottorato: Conservazione dei beni architettonici
Ciclo di dottorato: 17
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Casiello, Stella[non definito]
Tutor:
nomeemail
Tomaselli, Franco[non definito]
Data: 2006
Numero di pagine: 305
Parole chiave: Anastilosi; Reintegrazioni; Archeologia
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 08 - Ingegneria civile e Architettura > ICAR/19 - Restauro
Depositato il: 25 Lug 2008
Ultima modifica: 30 Apr 2014 19:33
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/2858
DOI: 10.6092/UNINA/FEDOA/2858

Abstract

la redazione della tesi vuole offrire una riflessione sul trattamento delle architetture allo stato di rudere, ripercorrendo le fasi del dibattito sul restauro archeologico e analizzando gli interventi di anastilosi e reintegrazione realizzati in Sicilia tra la fine del Settecento e la seconda metà del Novecento. Il restauro dei monumenti in Sicilia inizia il suo cammino il 1 agosto 1778, con la nomina dei due Regi Custodi, il principe di Biscari, Ignazio Paternò Castello e il principe di Torremuzza, Gabriele Lancillotto Castelli. Il territorio siciliano è diviso in due parti: quello occidentale, identificabile con i territori di Palermo e di Agrigento e quello orientale identificabile con i territori di Catania, Siracusa e Messina. I due principi, considerati tra le più illustri figure della cultura letteraria siciliana del tempo, sono chiamati a redigere i due Plani delle antichità delle due Valli, ovvero a catalogare tutti gli edifici classici esistenti nell’isola, indicando le eventuali proposte per la loro conservazione. I due Plani, nel dibattito sul restauro archeologico tra Settecento e Ottocento, si impongono per l’attualità delle argomentazioni e per la modernità dell’approccio metodologico al manufatto antico: la conoscenza è da perseguire mediante l’esecuzione di ricerche archeologiche, la predisposizione di rilievi e la realizzazione di restauri nei casi in cui essi siano realmente necessari e indispensabili. I primi interventi di restauro nei monumenti archeologici della Sicilia, sono svolti in maniera empirica ed assoggettati alla sola sensibilità e cultura degli operatori. La totale mancanza di concrete esperienze e di trattazioni specifiche sull’argomento e il diffondersi tra gli intellettuali siciliani, della consapevolezza di essere depositari di una cultura che poteva vantare l’illustre contributo dei greci, favorisce un’intensa attività sperimentale nei monumenti antichi, dettata soprattutto dal desiderio di incrementare la notorietà della Sicilia e di accrescere la visibilità della storia, riproponendo il monumento in tutta la sua grandezza ed interezza originaria. Un desiderio che conduce a compromettere l’autenticità del monumento attraverso reintegrazioni e sostituzioni delle parti eccessivamente degradate e interventi di liberazione dalle stratificazioni ritenute inconciliabili con la purezza stilistica del “modello”. Con il XIX secolo la disciplina archeologica diventa più metodica nell’attività di scavo, più rigorosa nella documentazione grafica, più precisa nell’interpretazione dei dati. La cultura del Tour contribuisce a diffondere un’idea di rudere superiore in bellezza al monumento ricostruito e le «ruine» diventano delle opere d’arte incompiute; esse sono già di per sé «parlanti» e non necessitano di interventi di ricomposizione. Con la conferenza di Atene, lo “spettacolo sublime” della dissoluzione delle architetture, è sostituito dal desiderio di ritorno all’”archetipo perduto” e dalla reintegrazione della “forma primitiva” del monumento: l’intervento di anastilosi non aumenta il valore archeologico del rudere ma la ricomposizione dei frammenti originari, andati dispersi, ne aumenta il valore estetico e la comprensione. Nell’intervento di anastilosi è vista una «finalità didattica» volta ad una maggiore fruizione dell’opera che, completata nelle sue parti mancanti, rende il reperto archeologico comprensibile in senso architettonico, da tutti i segmenti di pubblico a cui esso è rivolto. Il calcestruzzo di cemento, «il materiale moderno» che trova largo impiego nelle reintegrazioni dei primi dei primi interventi del Novecento, grazie alla maggiore facilità di lavorazione e alla sua resa formale inconfondibile con gli antichi materiali, in breve tempo è sostituito da conglomerati di cemento e graniglia dello stesso materiale del monumento, per dissimularne l’aspetto che è considerato «stridente e offensivo anche dal punto di vista cromatico». L’approccio scientifico della ricerca archeologica cede così alle lusinghe della seducente immagine compiuta del monumento che privilegia la rappresentazione fisica della classicità, fruibile esteticamente, sino al rischio della pura invenzione scenografica.

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