Schember, Emiliano (2013) La CGIL dal Piano del lavoro alla proposta di uno Statuto dei lavoratori (1949-1952). [Tesi di dottorato]

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: La CGIL dal Piano del lavoro alla proposta di uno Statuto dei lavoratori (1949-1952)
Autori:
AutoreEmail
Schember, Emilianoeschember@gmail.com
Data: 1 Aprile 2013
Numero di pagine: 267
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Studi Umanistici
Scuola di dottorato: Scienze storiche, archeologiche e storico-artistiche
Dottorato: Storia
Ciclo di dottorato: 24
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Rao, Anna Mariaannamrao@unina.it
Tutor:
nomeemail
Barbagallo, Francescobarbagal@unina.it
Data: 1 Aprile 2013
Numero di pagine: 267
Parole chiave: CGIL, Piano, Lavoro, Statuto
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche > M-STO/04 - Storia contemporanea
Aree tematiche (7° programma Quadro): SCIENZE SOCIOECONOMICHE E UMANISTICHE > Relazioni politiche ed economiche in Europa
Depositato il: 09 Apr 2013 07:38
Ultima modifica: 15 Lug 2014 13:24
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/9312

Abstract

La CGIL dal Piano del lavoro alla proposta di uno Statuto dei lavoratori (1949-1952) [abstract] Nell'ottobre del 1949, al II Congresso della CGIL a Genova, nella sua relazione introduttiva, il segretario generale Giuseppe Di Vittorio, lanciava il Piano del lavoro. L'iniziativa di Di Vittorio, che coglieva di sorpresa tanto socialisti e comunisti, quanto gran parte degli stessi dirigenti della CGIL, aveva l'obiettivo dichiarato di combattere la disoccupazione italiana, denunciandone la natura strutturale e non congiunturale, che veniva stimata attorno ai due milioni di persone. Aveva, altresì, l'obiettivo di dare impulso ad una politica produttivistica di ispirazione keynesiana, che assorbisse l'ampio bacino della sottoccupazione, soprattutto agricola, stimata in altrettanti due milioni di persone, riattivando il mercato interno italiano anche grazie ad una politica di investimenti pubblici di sostegno alla domanda. Il Piano articolava la sua proposta su tre settori ritenuti strategici: la bonifica e la trasformazione fondiaria; l'edilizia popolare; l'energia elettrica. Questa proposta fu presentata a Roma, alla fine di febbraio del 1950, durante una conferenza economica, sulla quale la CGIL investì molte energie, mediante tre relazioni affidate a esperti e tecnici dei relativi settori: gli ingegneri Gramigna e Grinovero, per la bonifica; gli architetti Diotallevi, Marescotti e Ceccucci, per l'edilizia popolare; il chimico Henry Molinari, per l'energia elettrica. Alle tre relazioni se ne affiancò una quarta, sul problema specifico del finanziamento, che fu firmata dal prof. Alberto Breglia e alla cui redazione contribuì, in modo significativo, Paolo Sylos Labini. Le quattro relazioni furono ampiamente discusse durante la Conferenza di Roma che vide anche la partecipazione dei ministri Campilli e La Malfa. La presenza dei due ministri alla Conferenza economica nazionale fu senza dubbio segnale dell'ampio e trasversale dibattito che sul Piano del lavoro si svolse a partire dalla fine del 1949 e durante tutto il corso del 1950, ma, dal punto di vista concreto, fu in contraddizione con l'aperta ostilità espressa sia da De Gasperi che dal presidente di Confindustria Angelo Costa. Nella relazione sul finanziamento il professor Breglia illustrò la teoria del moltiplicatore, sostenendo che, a fronte di una certa quota di finanziamento pubblico in attività produttive, il prodotto ricavato di volta in volta dalle attività a cui il finanziamento aveva dato vita, reinvestito di volta in volta, avrebbe, nel giro di dieci anni, ripagato l'investimento iniziale sviluppando la capacità del Piano di continuare a finanziarsi da solo, senza più bisogno dell'intervento pubblico. I fondi con cui attivare la prima fase del finanziamento si sarebbero dovuti ricercare utilizzando una maggiore progressività fiscale, impiegando le risorse inerti del Fondo lire e adoperando anche parte delle risorse in valuta straniera conservate dal Tesoro. Gli ingegneri Gramigna e Grinovero, impegnati nel campo della bonifica già dalla fine degli anni '20, restituirono, alla platea della Conferenza, l'immagine di un territorio italiano ricco di asperità, nel quale si sommavano ai limiti morfologici quelli demografici dovuti all'alta densità di abitanti per chilometro quadrato. Gramigna e Grinovero denunciavano anche la penuria di tecnici specializzati che rendeva difficile l'attuazione anche delle misure già disposte sia per la bonifica che per la trasformazione fondiaria. In questa prospettiva i due tecnici ritenevano che il primo e fondamentale passo fosse quello di adoperare gli strumenti atti alla bonifica già esistenti e non funzionanti. In secondo luogo suggerivano di dividere i comprensori con una forte ricaduta economica da quelli con una forte ricaduta sociale, per individuare quali avevano una capacità di sviluppo economico autonomo, una volta compiute le opere di bonifica e trasformazione, e quali avevano bisogno del supporto economico dello Stato per assicurare una sistemazione idrogeologica sufficiente alla vita civile. Nella relazione di Gramigna e Grinovero trovava anche riscontro il dato più volte denunciato dalla CGIL, e dai partiti di sinistra, e cioè che lì dove lo Stato aveva compiuto le opere di riassetto di sua competenza non era poi subentrata l'attività dei privati per la quota di loro competenza, cosa che aveva reso parziali e incomplete molte opere di bonifica. Per quello che riguardava l'edilizia popolare veniva fatto notare come le due leggi varate nella primavera dell'anno precedente, i cosiddetti Piano Fanfani e Piano Tupini, erano largamente insufficienti per rispondere a un fabbisogno abitativo già largamente insoddisfatto durante gli anni del regime fascista e che la guerra aveva enormemente aggravato. Quote consistenti della popolazione italiana vivevano ancora in abitazioni malsane, in grotte, tuguri, baracche, in situazioni di sovraffollamento che avevano ricadute significativamente negative sia dal punto di vista sanitario che da quello della capacità produttiva delle persone che ci vivevano. Gli architetti mettevano in relazione la diffusione di alcune malattie, come la tbc, con il sovraffollamento delle abitazioni, con l'esposizione al sole, con la presenza di servizi igienici, ecc., e sottolineavano il fatto che le persone che avevano la possibilità di abitare in case salubri erano lavoratori più produttivi, in questo senso, quindi, la questione abitativa aveva indirettamente a che fare anche con la produttività. Affrontando il problema abitativo nelle campagne, i relatori, sostenevano la necessità di dare vita ad una rete di abitazioni diffuse che avvicinassero i contadini ai campi e quindi ai loro luoghi di lavoro, migliorandone così le potenzialità produttive e, legando la questione abitativa a quella della bonifica e della trasformazione fondiaria, affrontando il problema della discontinuità lavorativa e della sottoccupazione agricola. Tecnicamente, Diotallevi, Marescotti e Ceccucci, proponevano la creazione di enti ai vari livelli locali e nazionali, adibiti all'individuazione del bisogno abitativo e al monitoraggio delle azioni intraprese per darvi risposta. Sulla questione dell'energia elettrica la relazione di Henry Molinari verteva essenzialmente sulla proposta della nazionalizzazione, così come era da poco avvenuto in Francia. Molinari illustrava la deficienza di energia elettrica e la sua cattiva utilizzazione sul territorio nazionale causata dall'organizzazione monopolistica delle imprese del settore. La mancanza di energia costituiva un grave handicap per lo sviluppo industriale italiano che, secondo il relatore, non doveva essere vincolato alle esigenze di profitto dei gruppi monopolistici. Inoltre, contenendo la produzione e l'erogazione di energia, i monopoli elettrici manipolavano i prezzi al consumo aumentando i profitti senza migliorare il servizio o potenziare, come tecnicamente possibile, gli impianti. Per la sua dimensione strategica, sia dal punto di vista industriale che dal punto di vista civile, la produzione, l'omogenizzazione della produzione e la distribuzione di energia elettrica, dovevano essere una priorità e una responsabilità dello Stato. Per questo la battaglia che la CGIL avrebbe fatto sua, sarebbe stata quella della nazionalizzazione dell'energia elettrica. Se il II Congresso di Genova e la Conferenza economica nazionale erano stati i momenti ufficiali di maggiore visibilità del Piano del lavoro, e quelli su cui maggiormente si sono soffermate le poche pubblicazioni sul Piano, tra l'inverno del 1949 e tutto il 1950, la CGIL sostenne un intenso e continuo lavoro di indagine e di ricerca sul territorio nazionale attraverso le Camere del lavoro provinciali e regionali. In questa direzione è stato possibile ricostruire, attraverso i documenti custoditi all'Archivio nazionale della CGIL, il dibattito locale svoltosi intorno al Piano, spesso più dettagliato e circostanziato di quello nazionale. Dalla lettura dei documenti provinciali è emerso il quadro dell'arretratezza civile, ancora prima che economica, dell'Italia all'inizio degli anni Cinquanta e lo sforzo, fatto dalla CGIL, di coinvolgere nella discussione e nell'elaborazione dei provvedimenti e delle richieste tutti gli attori dei vari territori, da quelli istituzionali alle singole persone. In effetti, la storia del Piano del lavoro va letta più alla luce del movimento che attorno ad esso si generò, nel mondo del lavoro, nella politica, nelle varie istituzioni territoriali, che alla luce degli esiti macroeconomici che alle iniziative del Piano sono riconducibili. Si è molto insistito, nelle ricostruzioni dell'esperienza del Piano del lavoro, sulla “mano tesa” di Di Vittorio al governo De Gasperi e sull'esperienza degli scioperi a rovescio, con cui i contadini occupavano le terre abbandonate e le lavoravano, riportandola sovente ad una dimensione culturale poco inerente al contesto storico dei primi anni Cinquanta. Il Piano del lavoro si inserisce a pieno titolo nell'orizzonte di quella corrente economica, fortemente presente e fortemente minoritaria nel contesto italiano, che avrebbe voluto un impegno costante dello Stato nella programmazione e, in alcuni casi, nella pianificazione economica. La proposta lanciata a Genova da Di Vittorio si collocava a metà strada tra Pasquale Saraceno e il nuovo corso lanciato dal PCI al suo VI congresso. Con il Piano del lavoro la CGIL di Di Vittorio iniziava ad assumere una fisionomia nuova, iniziava a realizzare una autonoma soggettività politica: non sindacato schiacciato sulla rivendicazione salariale e con una connotazione quasi corporativa, ma neanche mera propaggine del partito, sua cinghia di trasmissione. La CGIL ambiva a porsi come soggetto di rappresentanza di tutto il mondo del lavoro, compreso il mondo della disoccupazione inteso come contesto di lavoratori non lavoranti, abile a discutere direttamente e in prima persona con le istituzioni economiche e di governo del paese. L'aspirazione alla definizione di una soggettività autonoma pose la CGIL in un rapporto di costante dialettica in particolare con il PCI: anche su questo versante, nelle ricostruzioni esistenti, si è teso a sottolineare gli elementi di distanza e di differenza tra i due soggetti, rappresentati dal profilo molto diverso dei rispettivi segretari, Togliatti e Di Vittorio. Meno ci si è invece soffermati sulle contiguità e sulla costante collaborazione avvenuta tra PCI e CGIL sulle iniziative legate al Piano del lavoro, testimoniata, per esempio, dai documenti contenuti nel “Fondo Bitossi” presso l'Archivio nazionale della CGIL. In questo senso si è addirittura detto che il Piano del lavoro servì più al PCI e al PSI per uscire dall'impasse politica seguita alla sconfitta del 18 aprile, che alla CGIL per guadagnare posizioni nelle vertenze sindacali in corso. In un contesto nazionale circoscritto nei limiti del vincolo esterno e caratterizzato dai meccanismi dell'integrazione negativa, dove poco o nullo era lo spazio per visioni o tentativi fortemente riformisti in campo economico e sociale, il Piano del lavoro ebbe una valenza politica profonda che culminò, al III Congresso della CGIL a Napoli, nel 1952, con la proposta di Di Vittorio di uno Statuto dei lavoratori che aveva l'obiettivo di realizzare la Costituzione nei luoghi di lavoro. La personalità e la visione del sindacato di Di Vittorio impregnarono di sé tutto il ciclo aperto a Genova nel 1949 e chiusosi a Napoli nel 1952. I risultati di quell'esperienza si sarebbero poi colti nel tempo: dalla legge 300/70, alla concertazione degli anni Novanta.

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