Fattori, Adolfo (2013) Sparire a se stessi. [Tesi di dottorato]

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: Sparire a se stessi
Autori:
AutoreEmail
Fattori, Adolfoadolfofattori@libero.it
Data: 5 Marzo 2013
Numero di pagine: 215
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Sociologia
Scuola di dottorato: Scienze sociali
Dottorato: Sociologia e ricerca sociale
Ciclo di dottorato: 24
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Morlicchio, Enricaenmorlic@unina.it
Tutor:
nomeemail
Pecchinenda, Gianfrancogianfranco.pecchinenda@unina.it
Data: 5 Marzo 2013
Numero di pagine: 215
Parole chiave: Identità, Modernità, Crisi, Reincanto del mondo, Letteratura
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 14 - Scienze politiche e sociali > SPS/08 - Sociologia dei processi culturali e comunicativi
Aree tematiche (7° programma Quadro): SCIENZE SOCIOECONOMICHE E UMANISTICHE > Orientamenti nella società e relative implicazioni
Depositato il: 10 Apr 2013 10:12
Ultima modifica: 23 Lug 2014 12:14
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/9068
DOI: 10.6092/UNINA/FEDOA/9068

Abstract

Il senso dell’identità personale è forse il prodotto sociale più significativo del processo di modernizzazione/secolarizzazione che ha investito la società occidentale almeno a partire dal XV secolo. Il Soggetto moderno ha conosciuto più di un momento di crisi. Due di questi sembrano particolarmente cruciali: il primo, nel periodo di passaggio dal XIX secolo al XX, il secondo nel passaggio dal secondo al terzo millennio. La prima di queste crisi si verifica ad inizio Novecento; la seconda al volgere del millennio – quest’ultima con un significativo anticipo verso la fine degli anni Sessanta del XX secolo. Questi momenti di “catastrofe” del Soggetto sono in relazione a fasi in cui si agglutinano e precipitano gli effetti del mutamento sociale, negli ultimi cento anni grazie anche agli sviluppi e alle trasformazioni nelle tecnologie della comunicazione, e in cui si incrina la coerenza fra i sistemi di senso affermati socialmente e i significati percepiti individualmente; di questo ne danno prova e sintomo le produzioni estetiche, oltre che quelle critiche. Ci siamo rivolti alle une e alle altre per provare a tracciare una mappa del percorso del Soggetto, facendo particolarmente attenzione al ruolo che le tecnologie della comunicazione hanno avuto e continuano ad avere. In questa prospettiva gli anni a cavallo fra XIX e XX secolo sono stati il periodo in cui il romanzo come forma elettiva della narrazione moderna del Sé ha raggiunto i suoi apici e si è avviato verso al sua dissoluzione. Mettendo fra parentesi opere capitali come l’Ulisse di James Joyce o la Recherche di Marcel Proust è stata la cultura di lingua tedesca a produrre la maggiore quantità di opere significative. Opere che mettono – tutte, probabilmente per una serie di condizioni “privilegiate” – al centro la profonda crisi vissuta dalla società e dall’individuo dell’epoca. Alcuni scrittori, come Franz Werfel o Stefan Zweig, hanno scritto del crollo di un sistema politico e dell’intero universo simbolico di cui questo faceva parte. Altri, come Thomas Mann, Robert Musil, Hermann Broch, Franz Kafka, Robert Walser, si sono interrogati attraverso i personaggi messi in scena direttamente del destino dell’individuo loro contemporaneo. Di seguito, Elias Canetti, Gottfried Benn hanno esplorato percorsi che conducono ad esiti di incomunicabilità e di annullamento del Soggetto come approdo estremo della crisi del Sé moderno. La dissoluzione del romanzo borghese come forma specifica di espressione del Soggetto moderno – che riflette la crisi di questo – lascia il posto ed è generata dall’affermarsi di altri formati comunicativi, in particolare quelli audiovisivi: cinema, radio, fumetto, ma prima di tutto il cinema, poi quelli in cui si esprime la dimensione della serialità, anche se naturalmente la forma romanzo non sparisce. È in queste dimensioni, in parte “nuove”, in parte rimediazioni di quelle classiche, che ritroviamo le riflessioni – più o meno consapevoli, esplicite – sulla condizione del Sé nel contemporaneo, un periodo che parte dagli anni immediatamente successivi alla II guerra mondiale per spingersi fino ad oggi. Abbiamo provato a trovare nella narrativa contemporanea di lingua tedesca, in autori come Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch, nei romanzi della science fiction di Philip K. Dick e James G. Ballard e ancora, nella narrativa postmoderna di David Foster Wallace e in alcune pellicole la conferma dei possibili parallelismi, delle eventuali analogie nella percezione dell’identità e della sua relazione con la realtà sociale circostante fra i due periodi – o, in alternativa, eventuali differenze. Oggi, come all’inizio del XX secolo, si sommano per alcuni di noi, i nati dopo la II guerra mondiale, due accelerazioni del tempo, quella sociale e quella personale, che si traducono però in una compressione dello stesso, e quindi nel rischio di percepire una stasi assoluta, cieca. Una palude temporale stagnante, sterile, terminale. Perso – insieme alle “grandi narrazioni” della tradizione sopravvissuta (la religione) e dell’utopia modernista (la rivoluzione, il progresso), se vogliamo proprio offrirci una sponda al malessere che viviamo – il senso del “vivere in prospettiva”, privi di direzione, percepiamo una crisi radicale, insanabile. Ci rendiamo conto che questa condizione è – anche – il riflesso di una perdita, quella della prospettiva di un mondo più egualitario, “giusto”, “libero”. Che la propria “visione del mondo” provenga da una prospettiva religiosa o laica, liberale o marxista, si percepisce comunque il fallimento delle promesse implicite nelle “grandi narrazioni”. Dal modello dell’uomo nato dall’Umanesimo, Amleto, al campione della tarda modernità descritto in tanti romanzi e film, intravediamo un unico filo di un lungo crepuscolo, ormai diventato tramonto, che marca il fallimento dell’illusione della libertà e della potenza dei moderni, sul piano individuale quanto su quello collettivo. Umanesimo, illuminismo, liberalismo, marxismo come forme di emancipazione collettiva ed individuale si ribaltano e si abbattono sulla considerazione di sé dei rappresentanti delle élite intellettuali, inermi e rassegnati di fronte al disastro delle loro aspettative e illusioni. Possiamo considerare questo aspetto come un’ulteriore articolazione del senso di alienazione che provano gli intellettuali, anche in questo separati da un ruolo che hanno sentito a lungo come proprio: l’impossibilità ad agire nei confronti della sofferenza, del dolore, dell’ingiustizia – di cui il proprio disagio esistenziale è una declinazione, forse anche imbarazzante di fronte all’abisso dell’oppressione, dello sfruttamento, della schiavitù. L’essenza della condizione umana rimanda comunque alla parabola del soggetto moderno e ai suoi esiti terminali, così come sono stati espressi attraverso la saggistica e la letteratura del Novecento, di cui noi abbiamo preso a prestito alcuni protagonisti come idealtipi, come casi paragonabili a individui reali da interrogare sulla propria vita, sulla curva discendente percorsa dal soggetto moderno, sulla sua caduta. Assistiamo quindi a come il senso di questa caduta si rappresenta nella consapevolezza di coloro che la descrivono attraverso i personaggi che mettono sulla scena dei loro romanzi e dei loro film. Sfumato l’orizzonte del sacro, partecipando della condizione del dolore e dello sterminio che sembra di tutto l’umano, rimane ben poco cui far riferimento, cui ancorarsi. Di qui la possibile tentazione di “sparire a se stessi”, di risolvere l’enigma della morte con un rilancio sulla posta in gioco, attraverso la trasformazione in qualcos’altro. Da qui, forse, arrivati al traguardo di un pressoché completo di dissipazione dell’individualità e di “disincantamento del mondo”, sembra di leggere gli indizi di un suo “reincanto”: attraverso le declinazioni triviali, superficiali, certo, delle varie articolazioni della galassia New Age, o la dimensione decisamente più profonda delle interazioni con il mondo digitale, la Rete e gli universi sintetici che questi alimentano e propongono; ma, ancor di più, attraverso il ritorno del tutto laicizzato, “disincantato”, all’uso di categorie arcaiche, primordiali, come il caso, il destino, la necessità, ma rese impersonali, astratte, aliene, per spiegarsi e giustificare gli eventi percepiti come significativi nelle biografie individuali. Forze cieche, prive di intenzioni e di scopo – e per questo a maggior ragione incontrollabili, imprevedibili, fatali. Ma utili a imbastire una plausibile, forse rassicurante, “narrazione del Sé” che ridia “senso” a posteriori agli eventi di cui è stata costellata la nostra vicenda personale e allontanino l’incombere della morte, che rimane comunque inesorabile sullo sfondo della nostra consapevolezza, irriducibile, indecifrabile, eterna.

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