Luise, Gianluca (2006) Il governo locale in Italia. Dall’Unità al Fascismo. [Tesi di dottorato] (Inedito)

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: Il governo locale in Italia. Dall’Unità al Fascismo
Autori:
AutoreEmail
Luise, Gianluca[non definito]
Data: 2006
Tipo di data: Pubblicazione
Numero di pagine: 226
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Scienze dello stato
Dottorato: Scienza politica e istituzioni in Europa
Ciclo di dottorato: 18
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Pizzigallo, Matteo[non definito]
Tutor:
nomeemail
Feola, Raffaele[non definito]
Data: 2006
Numero di pagine: 226
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 14 - Scienze politiche e sociali > SPS/03 - Storia delle istituzioni politiche
Depositato il: 18 Giu 2008
Ultima modifica: 30 Apr 2014 19:30
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/2463

Abstract

L’amministrazione pubblica si muove sul lungo periodo e procede con ritmi ripetitivi: conserva a lungo regole organizzative e mentalità burocratiche, si fonda e vive di procedure operative consolidate. Assetti istituzionali di epoche precedenti si mantengono nonostante i cambiamenti di regime e le filosofie politiche che si scontrano con la poco appariscente ma tenace forza della prassi. Traiettoria questa più o meno comune a tutte le pubbliche amministrazioni ma caratteristica per molti motivi dell’ordinamento amministrativo italiano dalla sua costituzione fino al sistema repubblicano. Una caratteristica che ancor più appare evidente nell’evoluzione del modello accentrato per l’ordinamento amministrativo italiano, che appare strettamente omogenea con il suo impianto costituzionale. Tale omogeneità era data dalla forma di governo in cui si esplicitava la cosiddetta costituzione materiale che reggeva il Regno d’Italia. Un sistema nel quale gli eventi risorgimentali e la prassi parlamentare affermarono una interpretazione evolutiva e di governo parlamentare per il sistema politico-costituzionale del Regno, che, pur con qualche limite, differiva da quella formalmente prevista dallo Statuto Albertino. I Presidenti del Consiglio, necessitando della fiducia del Parlamento e non quindi di quella del Re, avevano bisogno, vista l’assenza di un moderno sistema di partiti, del consenso individuale, o almeno dei principali gruppi, politici e territoriali, dai quali l’assemblea era costituita. Ciò era la naturale evoluzione del funzionamento dell’istituto della rappresentanza politica basata su un suffragio concesso solo all’1.9% della popolazione, un sistema elettorale uninominale – maggioritario accompagnato dalla mancanza di partiti radicati su base nazionale. La necessità del governo centrale di acquisire il consenso dei deputati produceva accordi di natura essenzialmente clientelare, generando quel cattivo funzionamento del meccanismo che produsse, sul versante parlamentare, il trasformismo, su quello amministrativo locale la disponibilità dell’esecutivo di far giungere in periferia risorse materiali e finanziarie in cambio della fiducia concessa dai singoli deputati. In questo tipo di sistema entrava anche l’elettore, che poteva contare non perché aveva un rappresentante, ma se attraverso il rappresentante poteva attivare a suo favore la macchina amministrativa, la burocrazia. A ciò bisogna aggiungere che lo Stato prodotto dal Risorgimento pur rappresentando un profondo rivolgimento socio-culturale, modificando in modo sensibile il contesto politico-istituzionale, mancò, con la vittoria del partito liberal-moderato, di una vera e propria pars destruens a livello di classi egemoni centrali e locali. Di certo una struttura amministrativa “riservata”, discrezionale, insieme ad una combinazione di localismo elettorale e di centralismo amministrativo influì sulla nascente cultura politica della comunità nazionale, fissandone uno dei parametri costanti: il rapporto politico come rapporto di scambio. Il perfetto controllo dell’amministrazione centrale serviva quindi per garantire questo equilibrio: il deputato diveniva tutore presso il centro degli interessi della sua zona territoriale d’influenza, espressione di un notabilato con interessi ben radicati. Vi era quindi un flusso ininterrotto, di alterna direzione, di istanze, richieste, concessioni, piaceri, contropartite, deroghe e baratti di ogni genere, e non sempre di comprovata liceità. Tra l’universo centrale e quello periferico vi erano delle linee trasversali che finivano per cementare la dipendenza dell’uno dall’altro. Il deputato, forte del peso politico del suo voto in Parlamento, poteva intervenire sui prefetti per far punire sindaci e amministratori locali in mano a forze politiche avverse, potevano ben spingere verso l’allontanamento di un prefetto troppo zelante, così come gli amministratori locali erano in grado di frustrare le aspettative di rielezione di un onorevole attraverso l’influenza che potevano avere sulle poche unità di elettori locali sulle quali esercitavano un facile controllo. Questo “circolo vizioso” trovava espressione diretta nelle Deputazioni provinciali, delle quali, attraverso la regola del “cumulo dei mandati”, facevano spesso parte esponenti parlamentari. L’alternativa delle autonomie non sarebbe stata realisticamente praticabile perché avrebbe rappresentato un cuneo posto nei gangli della ben oliata macchina dell’amministrazione “generale” dello Stato. Una precisa ragione strutturale che ha ritardato, se non impedito, uno sviluppo democratico del sistema politico o quantomeno una evoluzione autonomistica dei poteri locali. Dunque la scelta di spiegare la deriva accentratrice del neonato Stato unitario, sembra non poter essere giustificata dalla inderogabile necessità, per la ristretta élite dominante, di garantire l’unità del Paese che si stava faticosamente conquistando. Ciò infatti non servirebbe a spiegare la perdurante continuità della scelta accentratrice. La spinta iniziale all’accentramento, dovuta all’instabilità del neonato sistema, può anche essere vista come un motivo più che valido per operare una scelta simile. Ma quando le circostanze critiche iniziali vennero meno, ed il rischio di un collasso e di una disgregazione dello Stato erano meno incombenti, la conferma di tale scelta non può essere spiegata se non si riconosce una precisa volontà dei ceti dominanti, sia centrali che locali, di mantenere la loro egemonia politica, sociale ed economica sulle classi subalterne e di impedire loro di partecipare alle gestione della cosa pubblica non solo in Parlamento, e quindi al livello centrale, ma anche sul piano delle autonomie locali. Appare evidente quindi che quel sistema politico e quel modello amministrativo, furono il frutto di precise scelte istituzionali e di consapevoli opzioni legislative, accelerate magari da situazioni politiche, sociali ed economiche contingenti, ma non dettate da esse. E quel sistema gratificò talmente bene le aspettative di chi lo aveva creato, ed in genere di chi deteneva il potere esecutivo, da poter godere di una lunga durata.

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