Franza, Annamaria (2006) L’evoluzione tardo-quaternaria del glacis basale dei Monti di Sarno (Campania) ed il ruolo degli input piroclastici. [Tesi di dottorato] (Inedito)

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: L’evoluzione tardo-quaternaria del glacis basale dei Monti di Sarno (Campania) ed il ruolo degli input piroclastici
Autori:
AutoreEmail
Franza, Annamaria[non definito]
Data: 2006
Tipo di data: Pubblicazione
Numero di pagine: 286
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Scienze della Terra
Dottorato: Scienze della Terra
Ciclo di dottorato: 18
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Ciampo, Giuliano[non definito]
Tutor:
nomeemail
Cinque, Aldo[non definito]
Data: 2006
Numero di pagine: 286
Parole chiave: Glacis, Vulcanoclastico, Intersection point
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 04 - Scienze della terra > GEO/05 - Geologia applicata
Informazioni aggiuntive: Indirizzo del dottorato: Geologia applicata al territorio, alle risorse e alla protezione dell'ambiente e dei beni culturali
Depositato il: 31 Lug 2008
Ultima modifica: 27 Ott 2014 11:32
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/632
DOI: 10.6092/UNINA/FEDOA/632

Abstract

Obiettivi principali di questo lavoro sono: 1) la raccolta, elaborazione e formalizzazione di dati stratigrafici e sedimentologici di dettaglio delle “coperture” quaternarie dell’area dei Monti di Sarno; 2) l’individuazione e cartografazione sia delle forme attive e relitte del paesaggio attuale, che delle paleoforme inserite come discontinuità nelle successioni stratigrafiche; allo scopo di comprendere: a) quali sono le tendenze evolutive nel lungo termine, sia nell’arco temporale che per i singoli contesti; b)quale è l’intera gamma delle tipologie di fenomeni che agiscono nel sistema; c) quali sono le “reazioni” morfodinamiche del sistema all’arrivo di nuove coltri piroclastiche, anche in termini di diversa natura e spessore; d) capire quali sono gli effetti che hanno avuto le variazioni climatiche tardoquaternarie sul sistema; e) individuare il rapporto che c’è tra le crisi di franosità e le tendenze morfodinamiche di lungo periodo, se queste sono eccezionali e fino a che punto. I numerosi tagli antropici, effettuati (ed ancora in corso) per la “Sistemazione definitiva delle aree a rischio e per il ripristino delle aree sede delle colate del 5 maggio 1998” , hanno consentito la raccolta di dati stratigrafici che hanno permesso di fare una ricostruzione dettagliata degli eventi morfoevolutivi avvenuti durante l’Olocene. I tagli naturali, esposti lungo le incisioni apicali e prossimali del glacis, unitamente ai dati di sondaggi geognostici raccolti nell’ambito di uno Stage, presso il “Commissariato di Governo per il Rischio Idrogeologico in Campania (Ord. Min. 2787)”, hanno invece consentito una ricostruzione degli eventi più antichi, che, seppur con minor dettaglio, si spingono fino al tardo Pleistocene medio. Tutti i dati sono stati raccolti in un data base e collegati ad una carta degli affioramenti realizzata in ambiente Cad. Il primo approccio è stato di tipo geomorfologico ed ha inteso individuare le diverse morfologie che caratterizzano unità di paesaggiodell’area di studio. Quest’ultima è suddivisibile in tre grandi unità di paesaggio: il mountain front, la fascia pedemontana e la pianura (considerata solo come elemento di confine del sistema preso in esame). Nell’ambito del mountain front, si distinguono dei relitti planari della originaria scarpata di faglia (localizzati in aree di interfluvio e modestamente incisi da bacini di basso ordine gerarchico) e, alternati a questi, dei bacini di escavazione torrentizia e fluvio-carsica. Le zone di testata si presentano concave ed articolate nel caso dei bacini più estesi e in alcuni casi catturano la paleosuperficie. La presenza di cornici litologiche da luogo a salti anche lungo il percorso degli alvei, in corrispondenza dei quali queste ultime tendono ad arretrare. La fascia pedemontana si presenta, solo nella sua porzione più alta, articolata in una successione di forme convesse (spesso rielaborate da dissezioni) che corrispondono alle parti apicali dei molti conoidi di deiezione che escono dalle sopraccitate incisioni torrentizie. Tuttavia, le zone collocate presso la base dei settori interfluviali del mountain front non presentano pronunciate depressioni inter-conoidali. Spostandosi a valle della fascia in cui si distinguono più apici di deiezione, i conoidi si anastomizzano tra loro in modo quasi perfetto, dando luogo ad un pendio piuttosto uniforme (glacis di accumulo) nel quale solo a tratti si riescono a leggere delle dolci convessità planimetriche ascrivibili all’azione costruttiva di uno specifico corso d’acqua. Solo allo sbocco dei torrenti del settore più Occidentale, al confine con Palma Campania, si hanno morfologie da singolo conoide ben pronunciate, ma di estensione limitata. Il glacis è stato suddiviso in: a) forme apicali; b) fascia prossimale; c) fascia mediana; d) fascia distale. A valle di quest’ultima inizia la Piana del Sarno vera e propria, caratterizzata da pendenze quasi nulle e da depositi fluviali e palustri. In alcuni contesti, l’andamento delle isoipse, denuncia situazioni di “incastro telescopico”, che sono state cartografate. Nell’ambito della ricerca svolta, il riconoscimento dei depositi vulcanici, utilizzati come marker stratigrafici, è stato finalizzato alla collocazione in un arco temporale, dei processi che hanno coinvolto i versanti dei Monti di Sarno ed in particolar modo la relativa fascia pedemontana, con l’intento di comprenderne l’evoluzione. I depositi vulcanici più antichi rinvenuti nell’area di studio, sono quelli ascrivibili al distretto Flegreo; in particolare, sono stati riconosciuti: l’Ignimbrite di Taurano (157.4±1ka), le pomici basali e l’Ignimbrite Camapana (39 ka) (CI unità 2: Rolandi et al. 2003). Tali depositi, si rinvengono solo in pochi affioramenti nell’ambito di profonde incisioni nei canali, in tagli antropici, o in sondaggi più o meno profondi. Il Somma Vesuvio, negli ultimi millenni, ha avuto un’attività più frequente rispetto a quella dei Campi Flegrei, che i versanti del Pizzo d’Alvano hanno registrato quasi integralmente. Infatti, a partire dagli episodi eruttivi più antichi, nell’area sono stati riconosciuti rispettivamente: le pomici di Codola (25000 y.B.P.), le Pomici di Base (anche Pomici di Sarno, 18,300±150 y.B.P.), (altra eruzione non datata) le Pomici di Ottaviano (anche Mercato 8010±50 y.B.P.), le Pomici di Avellino (3760±70 y.B.P.), le eruzioni Protostoriche (comprese tra Avellino e 79 a.D.), le pomici grigie dell’eruzione di Pompei (79a.D.), le piroclsatiti di Pollena (472 a.D.), una probabile Eruzione medioevale e le Pomici del 1631 a.D. Com’è noto da letteratura, la storia eruttiva del Somma Vesuvio è stata caratterizzata da alcune grandi eruzioni di tipo pliniano e diverse subpliniane. Pertanto non si esclude che nell’area, oltre alle unità sopra descritte, possano essere giunti anche altri prodotti da fall, che a causa degli esigui spessori e/o rimaneggiamenti, non sono stati riconosciuti. Quanto sopra ipotizzato è confermato dal rinvenimento sia dei depositi attribuiti al periodo eruttivo compreso tra l’eruzione di Avellino e quella del 79 a.D. (Eruzioni Protostoriche) che di quelli compresi tra 472 a.D. e 1631 a.D., mai segnalate prima nell’area. Particolare attenzione è stata dedicata allo studio dei corpi interposti ai prodotti vulcanici, o, laddove osservabili anche a quelli che hanno preceduto l’arrivo di tali prodotti. Lungo la fascia pedemontana sono stati riconosciuti numerosi depositi derivanti dalla rielaborazione sia dei prodotti del disfacimento del substrato mesozoico che dei depositi piroclastici. Nell’ambito di questi depositi, sono state distinte, composizione litologica, granulometria, genesi e strutture sedimentarie, sintetizzate nelle petrofacies (Segschneider et al. 2002), opportunamente codificate, al fine di rendere più immediata la lettura dei dati. Queste sono state poi raggruppate in litofacies. Successivamente sono state individuate 5 associazioni di litofacies, interpretate in termini di processi sedimentari e della loro distribuzione spazio temporale (Segschneider et al. 2002; Cinque et al. Anno 2005) . Le associazioni di litofacies α e β, sono rappresentative rispettivamente delle aree apicali e prossimali e si incastrano temporalmente tra IC e le Pomici di Sarno e tra queste ultime e le Pomici di Ottaviano. Le associazioni γ, δ ed ε sono tipiche delle fasce medio prossimale, medio distale e distale del glacis. Una prima distinzione nell’ambito dei depositi relativi al glacis, può essere fatta sulla base della componente litologica prevalente. Si afferma che i depositi relativi al Pleistocene, sono caratterizzati da prevalente componente carbonatica, e a luoghi da vulcanoclastiti (associazioni di litofacies α e β). Invece, i depositi Olocenici, sono costituiti quasi esclusivamente da prodotti vulcanoclastici (associazioni di litofacies γ, δ ed ε). A tale proposito va ricordato che anche Zanchetta et al. (2004), giungono ad analoghe conclusioni e datano la fine della produzione crioclastica in un periodo che va tra 13,1 ka e 10,4 ka. Dall’elaborazione dei dati raccolti sono state poi definite delle petrofacies (cap. 3 e 5), che, raggruppate in litofacies, hanno consentito di ricavare le associazioni di facies rappresentative dei diversi ambiti morfologici del glacis (paragrafo 5.3). Pertanto, dall’analisi dei vari litosomi e delle relative associazioni di facies, unitamente all’analisi geomorfologica, è stato possibile: Stabilire quali sono stati i momenti di aggradazione e le fasi di dissezione che si sono alternati sul glacis dei Monti di Sarno, nel corso del tardo Pleistocene-Olocene; Ricostruire una curva delle migrazioni subite dall’intersection point nei sopracitati momenti di aggradazione e dissezione; Caratterizzare i tipi di sedimentazione occorsi nelle varie fasi di aggradazione ed individuare per ciascuno di essi i tipi di processi di trasporto/deposizione; Riconoscere il ruolo delle fluttuazioni climatiche, tardo-pleistoceniche ed oloceniche, nella articolazione delle fasi erosione, stabilità ed accumulo pedemontane; Riconoscere la sensibilità del sistema all’arrivo di nuove coltri piroclastiche e proporre un modello di risposta che tiene conto della portata del ricoprimento. In particolare, a partire dal tardo Pleistocene sono state riconosciute almeno cinque fasi di aggradazione coincidenti con le cinque associazioni di facies riconosciute: α, β, γ, δ ed ε, a cui si sono intervallati, almeno due periodi di dissezione degli apici, con relativa loro migrazione verso valle a partire da circa 12 ka. A tali associazioni di facies si interpongono le piroclastiti primarie, che scandiscono cronologicamente questa evoluzione. L’abbondanza di clasti carbonatici che caratterizza le litofacies α e β, insieme ai vincoli cronologici offerti dall’Ignimbrite Campana e dalle Pomici di Sarno, collocano la loro formazione all’ultimo glaciale (Würm II e sue fasi tardiglaciali). Tale periodo di deiezione a clasti di substrato, forte migrazione a monte degli apici di conoide e forte clinostratificazione, si chiuse con una fase di dissezione e di pedogenesi sui terrazzi risultanti (pedomarker B sensu Frezzotti et al. 1996). Tale maturo paleosuolo di clima caldo-umido viene qui riferito all’intervallo tra circa 12 e circa 8 ka BP. Le associazioni di litofacies γ, δ ed ε caratterizzano i depositi che si formano tra circa 8 ka B.P. (dopo l’eruzione di Ottaviano) e il periodo moderno. In quest’arco temporale si sono alternati periodi di aggradazione del glacis, seguiti da soste, con avanzamento di fronti di alterazione, e progradazione verso valle del glacis, riconducibili a brevi periodi di crisi climatica, nell’ambito di un clima generalmente poco idoneo a dare deiezioni. Tutte le eruzioni esplosive che hanno portato almeno 3-4 dm di piroclastiti sui versanti dell’area di studio hanno indotto una immediata risposta in termini di erosione accelerata e conseguente deposizione sul glacis pedemontano. La durata e la portata di questi eventi di downwasting sono stati proporzionali a allo spessore della coltre, ma anche alla capacità di ripresa che i manti vegetali manifestavano in ragione delle condizioni climatiche vigenti in ciascun caso

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