Calabrese, Alessio (2010) Agonie dell'umano tra etica ed episteme. Considerazioni sullo stato vegetativo permanente. [Tesi di dottorato] (Inedito)

[img]
Anteprima
PDF
Calabrese_Alessio_23.pdf

Download (1MB) | Anteprima
[error in script] [error in script]
Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: Agonie dell'umano tra etica ed episteme. Considerazioni sullo stato vegetativo permanente
Autori:
AutoreEmail
Calabrese, Alessioale_cala@libero.it
Data: 30 Novembre 2010
Numero di pagine: 196
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Filosofia "Antonio Aliotta"
Scuola di dottorato: Scienze filosofiche
Dottorato: Bioetica
Ciclo di dottorato: 23
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Lissa, Giuseppelissa@unina.it
Tutor:
nomeemail
Papparo, Felice Ciropapparo@unina.it
Data: 30 Novembre 2010
Numero di pagine: 196
Parole chiave: bioetica; biodiritto; fine vita
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche > M-FIL/03 - Filosofia morale
Depositato il: 02 Dic 2010 10:37
Ultima modifica: 30 Apr 2014 19:46
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/8366
DOI: 10.6092/UNINA/FEDOA/8366

Abstract

Il presente lavoro prende in esame le problematiche epistemologiche di natura etica e giuridica sorte intorno alla condizione clinica denominata “stato vegetativo permanente”. La delicatezza dell’argomento in questione, per la sua rilevanza etica e giuridico-politica, ha comportato sin dall’inizio che si adottasse un approccio euristico complesso, attento a metterne in luce il carattere d’oggetto teoretico trasversale, sfuggente ad una univoca classificazione disciplinare. La ricerca, pertanto, si è mossa dalla descrizione di come si è evoluto l’accertamento della morte nelle scienze mediche; in particolare, ci si è soffermati a individuare quel movimento di “pluralizzazione della morte” che, iniziato con il metodo anatomo-clinico, giungerà sino alle diverse classificazioni nosologiche contemporanee delle morti cerebrali. Questo movimento di “pluralizzazione della morte”, se inizialmente ha dissociato nell’individuo la sua vita organica da quella animale (Bichat), poi quella più strettamente cerebrale dal resto dell’organismo (Rapporto di Harvard), negli ultimi trent’anni è penetrato sin nelle profondità della complessa architettura encefalica, distinguendo diversi livelli di patologie attraverso l’uso di differenti criteri neurologici. Da evento accidentale che nel mondo antico era legato alla “natura” e all’ambiente, con la modernità la malattia viene dispersa nel campo chiuso dell’organismo. Sarà infatti lo sguardo medico a mettere in luce che le forme patologiche, in realtà, rappresentano una deviazione interna della vita, e che la morte è l’esito inevitabile di un processo organico caratterizzato da «piccole morti in dettaglio». Questo dispositivo concettuale – fondato sulla nozione bichatiana del tripode vitale – è rimasto sostanzialmente invariato fino a quando, attraverso tecniche di rianimazione sempre più sofisticate, si è arrivati ad una riformulazione dei criteri dell’accertamento della morte basata sui soli dati neurologici (whole brain death). Nonostante ciò, a distanza neanche di quarant’anni dall’adozione del Rapporto di Harvard, sono state addotte molte prove sperimentali che la distruzione irreversibile di sezioni del cervello associate alla coscienza non comporta necessariamente la cessazione di altre funzioni legate soprattutto all’attività del tronco encefalico. È qui, dunque, che emerge quella particolare e specifica condizione clinica chiamata “stato vegetativo” di cui, a conclusione del primo capitolo, si è tentata una classificazione nosologica, una discussione del carattere di irreversibilità, e insieme se ne è rimarcata l’irriducibilità alle forme più comuni di “coma irreversibile”. Nel tentativo di operare una distinzione proprio da queste ultime – distinzione non soltanto diagnostica, bensì concettuale – nella seconda parte, invece, si è tentato di comprendere più in profondità il rapporto tra stato vegetativo e organismo. Muovendo dai riscontri scientifici di A. Shewmon, si è sottolineata la difficoltà di assumere l’equivalenza morte cerebrale/morte dell’organismo: infatti, il corpo che sopravvive nella condizione vegetativa presenta alcune caratteristiche spontanee – come la respirazione – tali per cui, sebbene privato della funzionalità degli emisferi cerebrali superiori, non può in alcun modo considerarsi alla stregua di un cadavere, e nello tempo, però, risulta problematico riconoscervi i tratti di una persona. In questa prospettiva, la definizione della vita vegetativa risulterebbe da una scissione tra la vita di relazione – garantita dalla presenza dell’attivazione della corteccia cerebrale – e la vita animale, intesa come ciò che è sotteso alla sussistenza del corpo-organismo. Tuttavia, proprio questo nesso tra organismo, animalità e vita ha richiesto una discussione più articolata a partire dalla sua genesi storico-epistemologica: per la biologia moderna, infatti, tutto ciò che è vivo e che può morire si presenta nella forma dell’animalità la cui caratteristica, in quanto organismo, è quella di possedere una serie di comportamenti attraverso i quali plasmare il suo ambiente circostante. Viceversa, la vitalità del corpo dello stato vegetativo è qualcosa che si è affrancato dalla circolarità di vita e animalità, per penetrare sino al livello microbiologico in cui la vita viene vista nelle sue componenti più elementari. Insomma, nello stato vegetativo, ben prima dei concetti di organismo e di persona, a entrare in gioco è la vitalità costituente il vivente stesso prima della sua cristallizzazione in una determinata forma, sia essa “animale” o “personale”. Che fare allora di questa vitalità? Questa domanda ha guidato la terza parte della ricerca, nella quale si tracciano, mettendoli a confronto, due possibili scenari esplicativi di risposta, rispettivamente legati a due differenti tendenze: la prima di esse attribuisce un significato immediatamente morale alla vita umana, mentre la seconda, invece, lega l’attribuzione morale (etica o giuridica) in primo luogo alla dimensione soggettivo-esistenziale delle persone in cui questa vita – dal valore di per sé intrinseco – si incarna. La scelta per uno o per l’altro punto di vista sembra indirizzare la maggior parte delle attuali questioni bioetiche – come la legittimità della sospensione dei trattamenti sanitari, il vincolo e l’univocità del cosiddetto testamento biologico, il ruolo del fiduciario, la riorganizzazione delle strutture sanitarie, la ridefinizione dello stesso concetto di salute e della sua protezione giuridica e, infine, una nuova soglia da stabilirsi tra il “normale” e il “patologico”. A questo proposito, appaiono problematiche, ad esempio, alcune sollecitazioni – non provenienti dal solo ambito religioso – che inducono a uno spostamento, non tanto epistemologico, quanto etico-giuridico, della condizione dello stato vegetativo sotto la categoria della disabilità. In conclusione, il quadro giuridico e le scelte morali emerse negli ultimi anni ci sono sembrati dipendere in gran parte dall’adesione all’uno o all’altro contesto richiamato in precedenza. Nonostante ciò, non si è potuto evitare di rimarcare il fatto che la vera posta in gioco di una posizione “etica” e “giuridica” assieme debba concernere il tipo di rispetto e il consequenziale atteggiamento che in qualche modo si è chiamati ad assumere di fronte a questi corpi, che dell’uomo mostrano – forse – oramai solo il volto sfumato, il suo sguardo agonico.

Downloads

Downloads per month over past year

Actions (login required)

Modifica documento Modifica documento