Rossi, Diego (2014) Metafisica del cyberspace. [Tesi di dottorato]

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Tipologia del documento: Tesi di dottorato
Lingua: Italiano
Titolo: Metafisica del cyberspace
Autori:
AutoreEmail
Rossi, Diegodiego.rossi@unina.it
Data: 30 Marzo 2014
Numero di pagine: 464
Istituzione: Università degli Studi di Napoli Federico II
Dipartimento: Studi Umanistici
Scuola di dottorato: Scienze filosofiche
Dottorato: Scienze filosofiche
Ciclo di dottorato: 26
Coordinatore del Corso di dottorato:
nomeemail
Di Marco, Giuseppe Antoniodimarco@unina.it
Tutor:
nomeemail
Giugliano, Antonello[non definito]
Data: 30 Marzo 2014
Numero di pagine: 464
Parole chiave: metafisica, cyberspace, Heidegger, Gibson, esistenza, cibernetica, Tao, computer, mondo, esserci
Settori scientifico-disciplinari del MIUR: Area 11 - Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche > M-FIL/06 - Storia della filosofia
Aree tematiche (7° programma Quadro): TECNOLOGIE DELL'INFORMAZIONE E DELLA COMUNICAZIONE > Macchine "più intelligenti", servizi migliori
Depositato il: 13 Apr 2014 21:47
Ultima modifica: 26 Gen 2015 12:29
URI: http://www.fedoa.unina.it/id/eprint/9802

Abstract

Il titolo della tesi, Metafisica del cyberspace, intende la metafisica in una duplice accezione: il candidato, infatti, mira ad una comprensione dell’essenza metafisica di quel fenomeno che è indicato come cyberspace, provando, contemporaneamente, a decostruire l’impianto metafisico, tecnico, che finora ha condotto, generalmente, la trattazione del sistema info-mediatico della rete. Il lavoro si sviluppa in due ampie sezioni. La prima si concentra sul Denkweg heideggeriano, con il duplice scopo di ripercorrerlo facendo emergere la centralità del confronto con la cibernetica, e guadagnare, così, contemporaneamente, una solida base ermeneutica per un più diretto confronto con la metafisica del cyberspace, sviluppato poi nella seconda sezione. Qui, il lavoro si confronta con la para‒letteratura di William Gibson, l’autore che ha coniato il termine cyberspace, sottolineandone il carattere speculativo, nel senso di un “pensiero poetante” che tenta di comprendere il fenomeno complessivamente riassunto in tale espressione e mirando all’essenza della tecnologia, intesa come l’evento del fenomenizzarsi stesso della temporalità. Attraverso queste coordinate, pertanto, è possibile articolare un’analisi della tecnologia informatica che miri alla sua essenza, delineando, dapprima, il senso metafisico della cibernetica e della teoria dell’informazione (e del loro incontro con la genetica e la biologia), per sviluppare poi un’analisi delle interpretazioni del fenomeno cyberspace, in chiave ontologica, fornite, in primo luogo, da pensatori come Gottard Günther, Michael Heim, Richard Coyne, Ernesto Mayz Vallenilla, che per primi hanno affrontato la cibernetica, le tecnologie informatiche e il cyberspace in una prospettiva squisitamente filosofica e che, non a caso, si sono direttamente confrontati con il pensiero di Heidegger. Il tentativo della tesi è, quindi, di far emergere un quadro complessivo della metafisica che sottende al cyberspace, onde coglierne l’essenza (evidentemente non tecnica) e fornire, così, le coordinate per un interrogativo sulla “destinazione” dell’esserci che si annuncia in quel compimento della tecnica moderna che è, per l’appunto, il cyberspace come luogo della calcolabilità assoluta, cioè lo spazio cibernetico, inteso come quella dimensione tecnologica e virtuale che, attraverso l’informazione, allarga, letteralmente, lo spazio dell’essere-nel-mondo. Riconducendo la tecnologia al suo ambito più proprio, e dunque alla sua origine metafisica (e cioè riconducendo la tecnologia a quella dimensione dis-velante della formazione di mondo che caratterizza l’esserci in quanto tale ― una dimensione veritativa che frattanto si è attestata in un logos tecnico, nella calcolabilità assoluta della cibernetica indicata dal cyberspace) il candidato intende comprendere l’essenza di fenomeni quali la realtà virtuale ed aumentata, l’interfaccia, la connessione, la rete, l’etere etc.: altrettanti aspetti ontici, ricadute quotidiane (letteralmente: applicazioni tecnologiche) di quel che sul piano ontologico è indicato dal termine cyberspace. Nella convinzione che non sia possibile comprendere realmente un fenomeno simile relegandolo alla sfera delle telecomunicazioni e dei mass-media, il candidato recupera la riflessione heideggeriana sulla tecnica e sulla cibernetica, liberandola da alcune ipoteche che, ancor oggi, ne ostacolano un’effettiva ricezione. Tale riflessione è, infatti, ancora in larga misura interpretata come una Technikphilosophie, riconducibile a categorie ottocentesche. Ciò che, però, si scontra con molti aspetti del pensiero di Heidegger, e con le sue stesse, esplicite, affermazioni in merito. Questa tesi si propone dunque, nella prima sezione, di ripercorrere il Denkweg heideggeriano, facendo largo uso dei carteggi, dei seminari e del materiale pubblicato postumo, per provare a recuperare il nocciolo del suo confronto con la tecnica e la cibernetica, penetrando quindi in quella sfera esoterica e privata che Franco Volpi ha definito, nella sua introduzione alle Conferenze di Brema e Friburgo, il “sacello” del pensiero heideggeriano. Ricollocando il confronto di Heidegger con la cibernetica nel giusto ambito ― un ambito centrale e non semplicemente occasionale o secondario ― il candidato intende rileggere l’intero percorso del suo pensiero come un tentativo di comprendere l’essenza della metafisica occidentale (e la storia dell’essere) attraverso il rovesciarsi estatico dell’Ereignis nel Gestell, ciò che sarà il tema cardine dello Heidegger più maturo. Già il fondamentale concetto della Sorge, in Essere e tempo, configurava un primo tentativo ermeneutico-fenomenologico di comprendere come l’essere stesso, in quanto tale, si ri-voltasse nel mondo quotidiano dell’utilizzabilità in ragione del carattere estatico della Temporalität, e cioè in ragione di quell’assenza di fondamento propria dell’Ab-Grund. Ma se Essere e tempo si concludeva con una mera allusione all’orizzonte temporale dell’essere, il successivo sviluppo del pensiero heideggeriano ha costituito un tentativo di avvicinarsi concettualmente sempre più a quel punto di svolta che, in sé, costituisce l’evento stesso in quanto tale. Evento che, nel suo e-venire, è a un tempo storico-destinale e ontologico. Il Gestell esprime appunto questo evenire dell’evento nel suo ri-volgersi e s-volgersi nella dis-posizione costante del reale, ciò che è, in termini ontologici, l’essenza metafisica della tecnologia, fino a quello svuotarsi dell’oggettività nel suo rovesciarsi in mera utilizzabilità insensata, nella circolazione, cioè, della pura informazione, con-figurata e im-posta dalla cibernetica e dalla teoria informatica. Chiarire tutto questo ha, nell’economia complessiva della tesi, una duplice finalità, come già detto: storico-filosofica ed ermeneutico-fenomenologica. Da un lato, si tenta di ottenere una più genuina comprensione del senso del Denkweg heideggeriano, anche e soprattutto in riferimento a quella “svolta misticheggiante” con cui generalmente si tende a liquidare lo Heidegger che, a partire dai Beiträge, ha tentato di pensare l’Ereignis. Dall’altro lato, il candidato intende guadagnare una base ermeneutica che consenta di pensare il fenomeno del cyberspace nel suo stesso fenomenizzarsi, evitando le pastoie di un approccio sospeso nell’antinomia tra “tecnofobia” e “tecnomania”, ovvero che rimanga imbrigliato nelle presunte opzioni di un “corretto” utilizzo della tecnica, ciò che denoterebbe, ancora una volta, l’assunzione inconsapevole di un atteggiamento tecnico nei confronti della tecnica. In questo modo, egli tenta di impostare correttamente il lavoro di analisi del cyberspace e della tecnologia informatica. Nel far questo, il dottorando fornisce una rilettura dell’opera gibsoniana, servendosi, anche in questo caso, di un’ampia documentazione basata su interviste, articoli e spunti analitici forniti dallo stesso William Gibson, sgombrando, così, il campo dagli equivoci di una certa, superficiale, ricezione. Il cyberspace, in questa prospettiva, costituisce un tentativo di nominare quel fenomeno di esternalizzazione ed estensione della memoria e della coscienza umana in una rete cibernetica ed organica a un tempo (cioè, letteralmente: cyborg) che è, per l’appunto, l’attuale impianto info-mediatico. Il che designa null’altro che il Gestell heideggeriano. In questo contesto, la ricerca si avvale delle analisi di pensatori come Richard Coyne, che ha sottolineato l’apporto dell’analitica esistenziale heideggeriana per recuperare il senso più autentico delle tecnologie informatiche, parte integrante della struttura esistenziale della Sorge; e, soprattutto, di Michael Heim, l’autore che per primo ha affrontato, con un netto taglio “continentale”, le questioni metafisiche sollevate dal cyberspace e dalla realtà virtuale. Nella lettura proposta, William Gibson, che ha sempre rifiutato di identificarsi con il ruolo di “futurologo” e ha sempre rigettato l’idea che le sue opere debbano occuparsi del futuro, intende piuttosto scandagliare, con gli strumenti di un pensiero “altro” da quello logico-sistematico (un pensiero che si potrebbe definire “poetante” o “rimemorante”), il territorio, per lo più non riconosciuto, che fonda e sostanzia l’essenza della tecnologia. Un territorio per il quale, come egli stesso afferma, “non ci sono mappe”, e per il quale, dunque, occorre rigettare ogni tentativo di rap-presentazione tecnico-scientifica, ovvero logico-sistematica. Attraverso un tale pensiero, Gibson prova a nominare l’essenza tecno-logica dell’esserci umano che, nella sua apertura estatica, pro-duce realtà, mondo, e dunque, per ciò stesso, virtualità. Sin da quella primitiva “proiezione di pattern” che è Lascaux e fino alla proiezione in rete di identità digitali. Ma il cyberspace, in quanto essenza della tecnologia, configura altresì una rete che imbriglia la temporalità in un impianto di calcolabilità assoluta, rovesciando il tempo nella spazialità cibernetica e livellandolo nella presentificazione del mero nunc stans della rap-presentazione informatica, in cui il bit assolutizza il καλκολος (inteso, in questo senso, come la pietruzza dell’abaco, “fatto di polvere”, secondo il significato della parola ebraica da cui deriva l’ἄβαξ greco e l’abacus latino) polverizzando la realtà nella pura virtualità. Ciò che tras-forma la rete di rimandatività propria della cosa ― l’utilizzabile intramondano ― in una rete che, invece, dis-pone la cosa, es-ponendola alla pura circolazione dell’informazione. Questo implica l’emergere di un esserci non più solo umano, nel senso che la “realtà aumentata” in pura virtualità implica un trascendimento dell’esserci, inteso come la formazione di un mondo che prescinde dall’essere-nel-mondo proprio dell’uomo. Non tanto perché la tecnologia si renderebbe autonoma rispetto al suo creatore (come, in maniera tutto sommato ingenua, si potrebbe paventare in uno scenario di “ribellione” delle macchine). Piuttosto, la calcolabilità, nella sua assolutizzazione, ingloba a sua volta l’apertura estatica, ovvero l’esistenza, dell’esserci umano in un più ampio orizzonte che l’esserci stesso, almeno nel suo tratto umano, non è in grado di abbracciare. Questo lo scenario suggerito dal capolavoro di Gibson, Neuromante: in esso lo spazio cibernetico, rappresentato dal software che dà il titolo all’opera, si rivela essere un orizzonte ulteriore, in cui lo stesso esserci umano è come un “ingranaggio” (ovvero, in questo contesto, una semplice “stringa” di informazioni all’interno di un codice, una “matrice”, più ampia) di un ambiente virtuale autopoietico, mantico, in grado di riprodurre la realtà in una proliferazione indefinita (e trans-finita) di mondi. Ciò che, in fondo, costituisce l’essenza di quel Kāla (divinità indù del tempo e della morte, più nota nella sua manifestazione femminile, Kālī, la cui radice sanscrita, kal, è all’origine del termine καλκολος, “calcolo”) che è la matrice infinitaria ed estatica della temporalità nel suo e-venire alla presenza. È su questo terreno che si avverte quello “slittamento ontologico” di cui parla Michael Heim, filosofo che ha l’indubbio merito di essere stato il primo a connettere l’ontologia erotica del cyberspace alla tradizione metafisica occidentale, definendo il cyberspace come la realizzazione del platonismo, ovvero come l’accesso diretto all’Iperuranio, al mondo delle idee, puramente virtuali, che costituisce l’infrastruttura estatica della realtà, ovvero, ancora, la matrice. Lo slittamento ontologico implica un terremoto che, se è avvertito in superficie ― ovvero, in una dimensione storico-sociale ― come una crisi valoriale legata al ritmo frenetico del progresso tecnologico, e al limite come il rischio di una “perdita di umanità”, in realtà non è che l’epifenomeno di un più profondo sommovimento inerente a quella che è la “tettonica” della storia. Si tratta di uno slittamento ontologico che, mentre implica, heideggerianamente, una svolta in seno all’essere, dall’altro indica un retrocedere dello statuto ontologico dell’esserci umano, in ragione proprio di uno spostamento nello spettro dell’apertura estatica del “ci”. La tesi giunge così al cuore della questione, in un territorio che, evidentemente, rende superflua ogni mappatura conosciuta, perché inservibili sono le coordinate sulle quali finora si è orientata la metafisica (umanità, persona, coscienza, natura, tecnica, società etc.). Il pensiero di Michael Heim fornisce una fondamentale guida ermeneutica per orientarsi in questo territorio, poiché le sue acute intuizioni sull’essenza della realtà virtuale, sull’ontologia del cyberspace, sul tecno-taoismo, che gli hanno procurato la fama di “filosofo del cyberspace”, consentono di incanalare l’analisi nella direzione di una meditazione più consapevole sull’essenza della tecnologia in generale, e dell’esserci umano nel suo essere-nel-mondo. L’emergere di un’intelligenza collettiva, di una governance diffusa nella forma della “cyberdemocrazia” diretta, così come è stato letto il processo d’informatizzazione da autori come Douglas Engelbart o Pierre Lévy, o ancora il mind uploading e la Singolarità, teorizzati da scienziati e filosofi come Marvin Minsky o Ray Kurzweil, non sono, da questo punto di vista, che espressioni grossolane e immaginifiche, piuttosto “futurologiche” e, letteralmente, fanta-scientifiche, di un fenomeno che può essere colto, invece, solo in un “passo indietro” rispetto all’approccio metafisico, poiché trova la sua provenienza nell’evento di reciproca appropriazione e traspropriazione di essere ed esserci. Una sorta di inter-faccia che la metafisica ha sempre definito in termini di anima, coscienza, soggettività, e che può essere intesa come l’essenza stessa della tecno-logia (in quell’evenire estatico che Heidegger scorgeva, nel seminario su Eraclito, come un passaggio dal λόγος al πῦρ della tecnica, individuando, in tale e‒venire, l’Evento stesso, inteso come il “Weg che tutto be-wëgt”, l’essenziale dominio, l’essenziale “cibernetica”, il governo che precede e domina, rendendo possibile, la stessa cibernetica dell’attuale paradigma tecnoscientifico). In questo contesto, allora, il principale rischio consiste nell’incapacità di cor-rispondere alla svolta che si annuncia in tale destinazione della tecnologia (il Gestell). E tale destinazione si profila come l’istituzione di una totalità meta-tecnica, come la definisce Ernesto Mayz Vallenilla: un orizzonte che estende i limiti finiti della metafisica tradizionale, ancorata alla struttura antropologica, e dunque essenzialmente legata alla “visione”, alla videncia (da cui derivano tutti i caratteri tradizionali della verità metafisica, che è sempre “ottico-luminica”, cioè sempre riconducibile alla vista e alla luce, perché è sempre antropocentrica, e dunque legata alla dimensione spazio-temporale propria della sensorialità umana), e si allarga ad un orizzonte trans-umano (pur ricomprendendo quello umano), che si rivela, appunto, trans-ottico e trans-luminico (e dunque anche trans-spaziale, trans-temporale, etc.). Un simile orizzonte rischia d’altro canto di produrre un’es-clusione dell’esserci umano dal suo “ci”, richiudendo l’apertura estatica (cioè il mondo) in quella che Jean Baudrillard ha definito la s-terminazione del reale, intesa come la rescissione della rete di rimandatività della cosa nell’insignificanza del mero calcolo, nella virtualità dell’informazione. L’uomo rischia effettivamente, come aveva intuito Günther Anders, di diventare qualcosa di “antiquato”, qualcosa di cui ― per usare la celebre espressione di Bill Joy ― “il futuro non ha bisogno”. Eppure, forse, il vero pericolo consiste proprio nel suo opposto, cioè nell’incapacità umana di riconoscersi come un tratto dell’esserci, un tratto non essenziale dell’essere, ma occasionale e fondamentalmente oc-cidentale (secondo l’accezione etimologica di ob-cidere, “cadere davanti”), e dunque eccentrico ed erratico, oltre che ekstatico-esistenziale, con ciò precludendosi l’occasione di afferrarsi autenticamente per quello che è.

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